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Joni Mitchell Contro i poeti Print-ready version

by Sandra Cesarale
Corriere della Sera
September 11, 2007

«Sono persino arrivata a odiare la musica ma non ero ancora pronta per la pensione»

ROMA - Joni Mitchell ce l'ha messa tutta per «invecchiare con grazia». Gli ultimi anni li ha passati a dipingere, guardare vecchi film e ascoltare la radio. «Ero arrivata a odiare la musica», il suo commento che spiega, almeno in parte, l'annuncio sdegnato di cinque anni fa: «Abbandono la latrina corrotta della discografia».

Ora la stella di Joni riprende a brillare: «Shine» il primo cd di inediti dai tempi di «Taming The Tiger» del '98, uscirà il 24 settembre. E lo stesso giorno sarà pubblicato l'omaggio che le ha dedicato Herbie Hancock, «River: The Joni Letters», in cui rilegge tredici brani della scontrosa cantautrice canadese con la collaborazione di Tina Turner, Norah Jones, Corinne Bailey Rae e della stessa Joni nella ballata «The Tea Leaf Prophecy». C'è anche Leonard Cohen, che però si limita a leggere i versi delle canzoni. Il primo incontro fra Hancock e Joni avvenne alla fine degli anni Settanta, per l'incisione dell'album «Mingus», che racchiude la collaborazione fra la Mitchell e il grande bassista e compositore Charles Mingus. «A questo punto della mia carriera voglio fare qualcosa che raggiunga le vite e i cuori delle persone», ha spiegato il pianista e compositore jazz. Che non è stato l'unico a voler rendere omaggio alla poesia dell'ex-regina degli hippies. In primavera Prince, Björk, James Taylor, Annie Lennox, Elvis Costello, Cassandra Wilson e Brad Mehldau hanno riletto il suo repertorio. Persino Madonna cita l'album «Court and Spark» come una delle sue più grandi influenze.

Ma Joni, 64 anni a novembre, che sa essere irritante come pochi, rifiuta l'aura da icona che le è stata cucita addosso. E ha bollato come «pallide imitatrici» le giovani cantautrici che a lei si ispirano. «Non sono considerata un poeta come Dylan o Jim Morrison. Sono convinta sia un bene. Nietzsche diceva: "Infangano le loro acque perché così, forse, sembrano profonde". I complimenti più belli mi arrivano dai neri. Una donna mi disse: "Ragazza, fai scorrere immagini nella mia testa". Per me, è meglio della poesia».

Ha vinto cinque Grammy e, nel '97, è stata ammessa nella Rock'n'Roll Hall of Fame. Eppure, ed è lei stessa a sottolinearlo, poche volte i suoi dischi hanno conquistato le cime delle classifiche. Con l'acre ironia che la contraddistingue, Joni si è data da sola una risposta: «Anche Doris Day ha venduto più di Billie Holiday». La sua vita è stata tutt'altro che semplice: la poliomelite da bambina, il vizio delle sigarette preso a sette anni (è definita una delle più «accanite fumatrici del pianeta»), una figlia data in adozione (e ritrovata dieci anni fa), il breve matrimonio con il folksinger Chuck Mitchell e una sfilza di amori tormentati (Neil Young, James Taylor, Jackson Browne, Don Alias, Jaco Pastorius). «In qualche modo il dono per la musica e la scrittura è nato dal dolore e dalla perdita», ha raccontato all'autrice di documentari Susan Lacy. «Quando mia figlia è tornata, il dono è andato via. Componevo nell'attesa della mia ragazza».

La sua «rinascita» è arrivata mentre lavorava a una compilation destinata alle caffetterie della catena Starbucks (che distribuiranno in America il suo nuovo cd). «Ho messo nella raccolta Debussy, Duke Ellington, Billie Holiday, Miles Davis, Louis Jordan. Le canzoni che ho sempre amato: musica gioiosa creata in tempi difficili, ma portò grande sollievo alla cultura. Il nostro guaio è che la cultura di oggi è orribile, come quest'epoca e la musica». Quando è entrata in studio non prendeva in mano una chitarra da dieci anni («Mi sanguinavano le dita»). Tra le canzoni, che si muovono fra jazz, world e pop, spiccano «Night Of The Iguana» (ispirata al dramma di Tennessee Williams) e la versione musicale di «If», la celebre poesia di Kipling. «Un amico me la lesse per telefono. Era un finale perfetto per il mio nuovo lavoro». Ovvero il balletto «The Fiddle and the Drums» che utilizza i suoi dipinti e, appunto, due nuovi brani poi finiti in «Shine». Ma l'elegante «signora del Laurel Canyon», che nel disco «Blue» raccontava il dolore e l'utopica ricerca della felicità, ha ricominciato a comporre pezzi militanti: l'inno antimilitarista «Strong Is Wrong» o i lamenti ambientalisti «If I Had a Heart» e «Bad Dreams are Good». «Sulla terra suona l'allarme rosso e noi siamo impegnati a buttare il nostro tempo in una guerra fondata sulle favole». È stato così che ha «capito di non essere pronta per il giardinaggio e la pensione». E nel cd compare anche una rilettura di «Big Yellow Taxi», che già vanta più di 190 versioni di altri artisti (ma rimane indietro rispetto a «Both Sides Now»). Di recente ha detto: «Per ascoltare i miei dischi c'è bisogno di emozioni e profondità. Sono due caratteristiche che non appartengono ai maschi bianchi ed eterosessuali che controllano la stampa».

Aveva perso la voce per noduli alle corde vocali, l'ha riacquistata con l'aiuto di un terapista cinese. L'estensione di tre ottave è scomparsa. Lei, indomita, sostiene: «Canto meglio, mi sento in grado di interpretare i repertori dei miei grandi idoli come Edith Piaf o Billie Holiday». Non ha mai ambito a diventare una diva: «Ho sempre odiato il ruggito della folla. So che la gente può essere volubile e che compra un'illusione: e io non ho provato a essere diversa da quello che sono. A differenza di Janis Joplin, non ho cercato la popolarità con il rock'n'roll». No, infatti. Come lei stessa ha ammesso un po' di tempo fa: «Ho cominciato a cantare per divertimento, alla scuola d'arte. Imitavo Judy Collins e Joan Baez. In realtà lo facevo per comprare le sigarette».

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